Raccontare la storia:
la tessitura di passato e presente

Niente di quello che ci capita è troppo spaventoso da non poter essere guardato. Questo messaggio mutuato dalla psicologia del profondo può diventare per un bimbo adottato, e per i suoi genitori, un prezioso aiuto per crescere, evitando le secche del dimenticare il passato come espediente per non soffrire, o al contrario quelle del razionalizzare, ridurre, sminuire. Quando si tratta di bambini arrivati in famiglia da meno di un anno di vita il tema della storia, del come raccontarla, delle reazioni del bambino al racconto, occupa sin dal primo giorno molto spazio nella mente dei genitori. Diversi di loro pongono domande impazienti sul momento “giusto” per raccontarla.

Il rischio è che diventi per alcuni padri e per alcune madri un vero e proprio compito, un dovere da svolgere il prima possibile e una volta per tutte “per il bene del bambino”, senza però interrogarsi sul proprio sentire e sulle proprie eventuali diffcoltà al riguardo. Se la narrazione della storia diventa un’ideologia “politicamente corretta”, cioè assorbita dal genitore durante la formazione senza veramente farla propria, senza aspettare il momento giusto sia per il fglio sia per se stessi, può viceversa trasformarsi in qualcosa di destabilizzante per il genitore stesso. Non sarà in questo caso in grado di gestire le reazioni emotive del bimbo, che sono sempre spontanee e perciò imprevedibili, e avrà perciò bisogno di un supporto.

Per questo mi sembra importante porre all’attenzione e alla rifessione dei genitori il fatto che il racconto che porgeranno al bambino non appena sarà in grado di capire è un primo importante gradino del diventare famiglia adottiva: è, infatti, di aiuto a ogni membro della famiglia, compreso il più giovane, per prendere conoscenza della peculiarità del nucleo in cui è giunto a vivere. Importante anche dialogare sul fatto che il tema delle origini verrà ripreso dal bambino stesso, più volte nel corso delle tappe della sua crescita fino all’età adulta, con i propri tempi e con le proprie modalità. Già nell’infanzia arriva per ogni bimbo il momento delle domande diffcili, quelle ai quali il genitore non ha le informazioni per fornire una risposta.

E allora è importante trovare il modo per affrontare insieme al fglio anche questi aspetti della propria origine, senza caricarli di eccessivi timori preventivi né liquidarli in fretta. Aiutare i genitori a ridurre la propria tensione e a inserire per gradi il racconto della storia del bambino nella vita della famiglia, come un momento importante nella costruzione del rapporto, serve non solo a ridurre l’enfasi eccessiva e la “definitività” di cui il racconto viene caricato, ma anche a condurre il genitore stesso verso la ricerca della propria verità comunicativa, del proprio personale modo di raccontare una storia, dalla quali egli per primo è coinvolto, poiché si tratta della nascita della propria famiglia.

Questo percorso viene naturalmente favorito dal tenere conto anche dei propri sentimenti, nel rievocare il percorso dell’adozione. Raccontare la storia mette naturalmente in gioco anche chi la racconta; è un atto di relazione e può di conseguenza suscitare sentimenti tra loro contradditori, ricordi e ferite legate al passato, alle proprie aspettative mancate di genitorialità biologica ad esempio, può riportare ad ambivalenze non del tutto rimarginate. Tutto questo bagaglio di esperienza è vivo dentro la personalità di chi l’ha vissuto e, se pure già in parte assestato, può riemergere, nel momento ad alta densità emotiva del narrare la storia al proprio fglio adottivo. In questo atto in apparenza semplice si stratifcano, infatti, il desiderio di far bene al proprio fgliolo, l’imbarazzo per il riemergere di reazioni proprie che non si sa come collocare, il timore di non saper fronteggiare l’eventuale dolore o rifuto del bimbo di fronte alla verità che gli viene narrata. Di qui l’ansia e il corto circuito emotivo che a volte i genitori si trovano a fronteggiare.

Ad esempio, in una madre particolarmente ansiosa la mancata reazione del bimbo al primo racconto, l’assenza di domande, può scatenare insicurezze riguardo alla propria capacità di comunicare con lui, oppure rispetto allo sviluppo del bimbo stesso (“Non ha ancora fatto domande di approfondimento ed ha già cinque anni, è normale?”). Accompagnare i genitori verso la ricerca del “modo giusto” di raccontare, per sé e per il proprio bambino, signifca anche aiutarli a legittimarsi come protagonisti della relazione, cioè come persone, a comprendere che non devono essere asettici, ma possono avere e anche mostrare il proprio sentire, che anzi riceverlo è per il fglio un’autentica ricchezza e costituisce un approfondimento del suo legame con loro.

Secondo la mia esperienza, non solo per rispetto del bambino ma di se stessi, èimportante trasmettere al bambino la verità in modo il più possibile diretto, semplice e completo, nel narrargli per la prima volta il proprio arrivo in famiglia e i suoi antefatti. Il bambino, anche se ha soltanto due o tre anni di età, è in grado di apprezzare la chiarezza del racconto, mentre la sua essenzialità lo aiuta a coglierne con immediatezza il nucleo, cioè che questi genitori lo hanno desiderato, accolto e voluto con sé. Sa anche apprezzare l’autenticità del genitore nel mostrare un’emozione o un sentimento, nel condividere una gioia o un sentimento di sofferenza, accogliendone l’eguale legittimità.