TANTO DISTANTI, ALTRETTANTO INTIMI

In questo tempo instabile e paradossale un modo per combattere il malessere è quello di focalizzarsi sui dettagli, su quei piccoli lampi di indecifrabile che si affacciano in quello che viviamo. Non allo scopo di consolarci, piuttosto di cercare frammenti di senso, che traccino un sentiero nel caos precario che oggi  ci appare l’unica realtà. 

Se è chiaro che dopo la pandemia non torneremo al mondo di prima, tanto vale cominciare a curiosare nel  mondo del “dopo”, dandogli forma.

Per decenni lo studio di una/uno psicoterapeuta è stato un luogo/rifugio anche per gli smarriti nel mondo, per le persone che non si sentivano all’altezza della competizione, delle richieste pressanti del mondo e degli altri. 

Passo passo, imparando ad ascoltare la propria voce interna, quel buio che  inizialmente non ha forma, le persone potevano trovare la relazione con la propria “casa” interiore. La certezza di essere un Io con un valore e di poter camminare attraverso la vita con maggior sicurezza.

 

Oggi che anche il mondo fuori è più che mai imprendibile e drammaticamente incerto, oggi che bisogna stare lontani dagli altri, compresi quelli che ci davano conforto, succede che gli individui siano altrettanto o più smarriti, ma altra si fa la via da percorrere per accompagnarli.

Agli inizi della mia carriera lavorai per diversi anni come psicologa di sostegno in un carcere femminile, incontrando persone di ogni età-molte giovanissime- dilaniate dal male, dalla dipendenza, dalla violenza diffusa che divora il bello di una persona.

Un aspetto speciale della mia professione è poter entrare a contatto con la sofferenza più distruttiva e profonda, e, a volte in contemporanea, con la capacità di ripresa stupefacente che coabitano dentro ciascun essere umano. 

Si alternano in modo imprevedibile, sfuggendo a ogni logica come a ogni idea troppo strutturata della mente, aprendo la finestra a qualcosa che scompagina le attese. Per dipanare la matassa c’è semplicemente da disporsi ad accogliere l’imprevisto dell’altra parte di noi.

Proprio in carcere, appunto, incontrai per la prima volta la presenza di una specie di essenza dell’umana spinta a sopravvivere. Persone con il buio dentro, ognuna con la propria sofferenza e accomunate dall’esperienza del vivere senza libertà, con paure simili, inaspettatamente si aiutavano tra loro, erano solidali. Senza bisogno di parlarsi, respiravano la comune appartenenza all’umanità. 

Si condivideva semplicemente l’essere umani, vulnerabili: una condizione che  in quel luogo impregnato di dolore, si manifestava in modo lampante, senza fronzoli.

Poteva capitare che, comunicando agli altri ciò che restava ancora vivo in sé,  alcuni  recuperassero il desiderio di riprogettare la propria vita.

Ritrovo la stessa ricerca/aura di intimità e di legame nel commovente eroismo quotidiano di molte persone che incontro in questi mesi, quando decidono di prendersi cura di sè.

Se non si sa nulla del futuro e navighiamo a vista, dicono quegli sguardi, tanto vale resistere provando a prendere in mano la propria esistenza. Ma da soli è impossibile, bisogna essere almeno in due.

E così ci si lascia stupire da un tangibile riemergere di un  diffusso“bisogno di casa”: si fanno terapie da casa propria verso casa del terapeuta, si è al sicuro ma anche un po’ imprigionati nella propria abitazione. Ed è nel corto circuito tra “casa” reale e “casa” interna che si dipanano forme inedite di intimità tra esseri umani  costretti  dalla pandemia a stare a distanza.

 

Ho visto più di una volta, in questi lunghi mesi di lockdown, irrompere dallo schermo un’emozione autentica e insolitamente profonda, che ha regalato una svolta a una terapia imprigionata da anni in una stasi che pareva senza sbocco.

In un’altra relazione terapeutica ho percepito una vicinanza fisica tale che per un  lungo momento ci siamo scordati che i corpi erano distanti.

Ho sperimentato quanto la dimensione personale della vita di un analista, sottoforma di un gatto che irrompe in seduta saltando dall’alto di una libreria fin quasi sopra il computer in cui si sta svolgendo un difficile, disperato monologo, possa aiutare il paziente a ridurre la distanza emotiva con un’ondata di stupore caldo, con una risata gentile.

Come se il fare terapia, da un lato e dall’altro, diventasse un’esperienza maggiormente percorsa da una vena affettiva, da una ricerca di “casa” e di legami meno strutturata ma forse più consapevole. O meglio, si è affacciata in molti la presa di coscienza che entrambi, analista e paziente, siamo altrettanto esposti in ogni momento al trauma della prolungata distanza fisica, al prevalere della fragilità, all’improvviso irrompere di malattia e morte. E’ questo a renderci  spontaneamente vicini, creando la base e la complicità per resistere al dolore   e per  lanciare parole e sguardi in grado di ridurre la distanza.

Sguardi/ponte che collegano noi a noi, noi all’altro essere umano. 

Che alleggeriscono la solitudine, saltano oltre l’individualismo freddo e sanno farsi più concreti della parola.

Cercando la nostra casa, ci accorgiamo che è anche quella di chi ci sta accanto. E la solitudine si fa più lieve, persino sorridente.

 

Paola Terrile

30 dicembre 2020