Tratto da “Lo psicologo analista e gli orfani dell’Io”
Mentre ascoltiamo le parole piatte degli “orfani dell’Io”, stiamo costruendo uno spazio relazionale che non interpreti né decostruisca, ma tenga insieme la complessità dell’esistenza nell’era contemporanea, come messa in evidenza del comune essere individui immersi nel presente; rispettando anche la necessaria difesa nevrotica che tiene insieme la fragilità delle identità, così come il limite di comprensione del paziente rispetto alla funzione simbolica. Se la richiesta iniziale del paziente è di fatto quella di stare meglio, su che cosa ciò significhi, le strade mentali già si dividono.
Dato che nel presente ciò che ci si mostra è un falso Sé, ovvero l’unica modalità identitaria che tiene insieme il nostro paziente, mi sembra legittimo e possibile evitare di smontarlo e provare invece ad integrarlo. Per comprendere che cosa ciò concretamente significhi, occorre partire da un’osservazione empirica di ciò che avviene nel nostro studio. Se il paziente si accorge che l’analisi non ottiene effetti immediati, che contrariamente alle sue attese è un percorso lungo e faticoso, che occorre impegnarsi in prima persona perché l’analista non può migliorare le cose da solo, perché non interrompe le sedute e non va a cercare un “metodo” più veloce per stare meglio, il che sarebbe assai più in sintonia con il suo habitus mentale?
Come mai continua invece a frequentare il nostro studio, al quale era giunto con una fretta ansiosa di essere liberato dai sintomi dal tecnico di turno, ed in cui circola un’aria straniera e totalmente estranea al suo quotidiano essere nel mondo?
Le sedute di questi pazienti sono abitate anche per anni da anestesia dei sentimenti, assenza di ascolto, silenzio, frammentazione del soggetto, attesa. Se il silenzio, l’ascolto e l’attesa di qualcosa che non c’è ancora, nella vita del paziente fuori della stanza di analisi non esistono, proprio lo sperimentare questa esperienza perduta può essere ciò che trattiene il soggetto sofferente dal fuggire verso modalità di cura più facili ed immediate.
Tutto è fermo, mentre la signora S. mi racconta -del movimento convulso e per lei insensato che costituisce l’essenza delle sue giornate. Io percepisco vuoto ed assenza, lei sta di nuovo male e si abbarbica ancora una volta alla sua struttura nevrotica come alla sola identità possibile. Stiamo insieme in una stanza, ma non comunichiamo a parole, perché non abbiamo un linguaggio comune. A ben guardare, però, mentre S. mi parla ed io l’ascolto, non viene con ciò già soddisfatto un bisogno di relazione che, pur se inconsapevole, può fungere da traino per la rinascita e trasformazione dell’Io? L’esperienza dell’essere ascoltati ed accolti è un’incubatrice di significati (di modalità istintive e meno spersonalizzate di entrare in contatto con il mondo), che possono non emergere per molto tempo, mentre l’analista maieuta ne accompagna il formarsi ed il venire alla luce.
La stessa sofferenza appare in questa luce meno inglobante, perché il condividerne il peso apre uno spiraglio di differente approccio. Nell’ “ascoltare e stare” il legame – interiore, tra noi, col mondo – è già presente: nel corso del tempo lentissimo dell’analisi si cercano i pensieri per accorgercene e le parole per esprimerne forme, sfumature, movimenti.
Ciò che facciamo in seduta, tra immagini di calma piatta e invadenza del sintomo, è quindi il costruire un senso stando entrambi seduti nell’anima collettiva del nostro tempo tecnologico, anima che ci plasma e ci condiziona, ma appare del tutto incomprensibile. Lo è per il paziente che è identificato con la coscienza collettiva, ma anche per noi analisti, se insistiamo nel leggere il mondo con schemi già pronti e che risultano in parte inadeguati.
Se invece includiamo nel nostro ascolto terapeutico la complessità del mondo in cui viviamo, dell’anima oggettiva i cui aspetti inconsci ci influenzano profondamente, ciò facendo ci mettiamo in relazione con qualcosa di sconosciuto ed oggettivo il cui movimento possiamo arrivare a percepire, dandoci così la possibilità di non subirlo. Lo “stare con” è già la risposta alla domanda di guarigione, anche se il paziente in apparenza sta ancora male e non si relaziona con il proprio dolore. Avverte però che noi lo facciamo, e che questa è l’arte silenziosa ed umile che può dare significato al vivere. Il “dare senso” non può essere un processo esclusivamente mentale-cognitivo, ma emotivo-esperienziale.
Un atto quasi invisibile che sposta appena il punto di vista, ma tanto basta per modificare radicalmente la percezione di sé e del mondo. Nell’era della tecnologia e dell’individuo “liquido”, nella quale, tra materialità invadente ed onnicomprensiva da un lato ed illusione di libertà assoluta dall’altro, si è persa la dimensione relazionale empirica dello stare fermi ad aspettare di poter comprendere che cosa sta avvenendo in noi e cosa è meglio per noi, la ricerca del senso nella relazione è un’esperienza antica che non può essere spiegata (nessuno tra l’altro ci crederebbe), ma riscoperta.
A ben pensarci, la stanza d’analisi è oggi uno dei pochi luoghi in cui ci si può imbattere in questo tipo di esperienza umana fondamentale, nella quale senza limiti di tempo prefissati ci si può concedere il lusso (che neppure i genitori coi figli oggi si concedono, sempre pressati dal fare e dall’inseguire qualcosa) di stare fermi a fare nulla. Un “tempo vuoto” che riempie man mano l’esistere di un’espressione unica, e che si scopre consistere nel prendersi cura, nel costruire e scoprire un legame con l’altro dentro di sé e con l’altro al di fuori, e con il mondo. Nel momento in cui stiamo ad ascoltare un paziente sofferente ed intrappolato nella frammentazione e lui coglie l’autenticità di questo ascolto, il processo del “dare senso” come costruzione esperienziale a due è già in corso.
L’“assistenza nell’assenza” si srotola come un tappeto fino a diventare relazione vivente e vissuta, man mano che l’individuo si scopre a sé medesimo nell’esistere, ed esperisce la propria unicità come un valore. Il paziente intuisce infatti che questa per lui inedita esperienza ha un effetto benefico, anche se si tratta di unpercepire istintuale confuso, che non possiede il linguaggio per esprimere; ma proprio questa percezione apre la strada verso un pensare che non si immaginava possibile, verso il pensiero-ponte che collega ciò che sembrava sostanzialmente diviso. Il bisogno di relazione può altresì essere letto come manifestazione dell’aspetto affettivo ed etico nel relazionarsi ad altri esseri umani.
Riformulando la domanda sulla natura del legame tra noi e i nostri pazienti, un aspetto fondamentale di essa è la necessità (inconsapevole ma presente già nella domanda d’analisi) della relazione affettiva come dialogo con l’altro. Il puntare lo sguardo sul rapporto con la funzione del sentimento nella costruzione del senso della propria esistenza, conferisce al processo analitico un carattere etico; rimette cioè al centro l’individuo con i suoi limiti e le sue necessità, ma anche con la libertà e la responsabilità di dar loro una direzione, che è quella da lui percepita e scelta nel corso del dialogo con se stesso.
L’analisi così delineata, che potremmo infine descrivere come il quotidiano stare nell’assenza dal quale può prendere forma il processo della relazione, e quindi un Io più delineato e capace di sentirsi esistere ed esprimersi nel mondo, può essere ancora considerata come cura in senso psicologico e terapia? O questo non è che il lontano punto di arrivo, e mi viene da pensare in certi casi neanche il più importante, di un processo che è prima di tutto recupero e messa in salvo di un’ esperienza umana fondamentale?(…)
L’esperienza clinica quotidiana ci mostra un’evidente trasformazione del punto di vista: dal momento in cui il bisogno di relazione viene avvertito e riconosciuto dalla coscienza, al centro dell’investimento e dello sguardo del paziente non vediamo più la scomparsa del sintomo, bensì la premessa fondamentale di tale scomparsa. Vi cogliamo cioè il riconoscimento del bisogno di prendersi cura e di relazione autentica come nucleo fondante dell’esistere, e il costruire intorno ad esso la ricerca del proprio senso.
Paola Terrile “Lo psicologo analista e gli orfani del’Io”,in Pazienti postmoderni, Vivarium 2012.