Ma io una famiglia ce l'avevo!

In questo libro intraprenderemo un viaggio ”in punta di piedi”, animati dal rispetto e dalla delicata attenzione che meritano, intorno e dentro parole e racconti di bambini adottati in età differenti in Paesi lontani dall’Europa, che stanno attraversando l’età della loro fanciullezza. 

Ci accosteremo ad essi considerandoli veri e propri ponti, importanti per prendere contatto con pensieri e sentimenti che accompagnano i bimbi in quel lungo “periodo di mezzo” rappresentato dai primi mesi ed anni nel nuovo mondo.
Ci guida l’ipotesi che guardare da vicino le esperienze pregresse del bambino, positive o negative, così come ascoltare le domande sulle origini e i sentimenti al riguardo, sia fondamentale per chiunque abbia a cuore il suo benessere. In una parola, imparando a prendere in considerazione e a prendersi cura di tutto quanto ha contribuito a costruire le competenze e l’identità del bambino, si può aiutarlo  a ricollocarle dentro di sè, a collegare quanto è separato e a situare sé stesso nel presente. 

Osservando attentamente il modo in cui il bambino va costruendo connessioni,non necessariamente lineari, ma sempre portatrici di senso, tra sentimenti, tempi e luoghi a un primo sguardo assai distanti, ci si avvicina al nucleo della percezione di sé del bambino adottato e alla sua continuità identitaria: con sorprendenti scoperte su modi e tempi in cui la sua personalità va sviluppandosi.

I racconti spontanei, più frequenti nel primo periodo di vita in famiglia, sono in effetti un regalo, in quanto parlano per lo più della vita che il bimbo ha trascorso prima, aiutando il genitore a conoscere meglio i suoi bisogni. Nel caso il bambino sia entrato in famiglia nella primissima infanzia, a catturare l’attenzione dei genitori sono le sue domande e le ipotesi del figlio  sulle proprie origini.

Ciò che sappiamo dei vissuti e delle percezioni dei bambini adottati è peraltro mediato da alcuni presupposti che, per quanto realistici, possono non essere sufficienti a comprendere quello che i bimbi provano.
Uno di questi presupposti è che un bambino abbandonato dai genitori biologici sia per lo più triste e non si trovi nelle migliori condizioni per crescere, e che di conseguenza nella nuova famiglia starà senz’altro e fin da subito assai meglio che in istituto. Un altro è che l’amore della nuova famiglia risanerà gradualmente le ferite e aiuterà il piccolo a dimenticare o a mettere in un angolo il passato, iniziando in tutti i sensi una nuova vita.

Molto spesso il bambino non porta con sè soltanto brutti ricordi o vissuti negativi del suo Paese d’origine. Può aver conosciuto e ricevuto nei primi anni accudimento e affetto, dai genitori biologici o dai nonni o ancora dai fratelli maggiori, oppure dalle educatrici  che si sono prese cura di lui nell’Istituto in cui è cresciuto.

Anche se quando è partito dal Paese di nascita era troppo piccolo per poterne un ricordo, qualcuno nel luogo in cui ha visto la luce lo ha preso anche se per poco in braccio e lo ha condotto verso la vita. Tutto questo, al pari dei vissuti traumatici e dei cambiamenti improvvisi e radicali, non ultimo  il passaggio repentino di Paese o di Continente che lo ha condotto fino alla famiglia adottiva, (stiamo parlando di figli dell’Adozione Internazionale), fa parte dell’esperienza di ogni figlio adottivo e contribuisce a  formarne la personalità.

Costituisce un bagaglio fondamentale che il bambino inizierà presto a condividere con i nuovi genitori e con altri adulti di riferimento.

Difficilmente però noi adulti, genitori o psicologi, ci soffermiamo ad osservare o ad ascoltare  sentimenti e  riflessioni dei bambini nella loro interezza. 

Animati da una comprensibile fretta di lenire le loro sofferenze, sovente non prestiamo abbastanza attenzione alle esperienze “normali” che ogni bimbo porta con sé.Eppure è a queste esperienze, alle reazioni che hanno attivato, formando la sua personalità e nutrendo competenze, che il bambino può fare appello per affrontare il compito della crescita in un universo differente da quello in cui è nato. La domanda che viene a questo punto da porsi è se puntando lo sguardo prevalentemente sugli elementi di sofferenza traumatica, non si rischi per paradosso di precludersi la possibilità di un’alleanza con la parte più matura della personalità del bambino; un’alleanza indispensabile a sua volta per aiutarlo nel difficile compito di tenere insieme, ricomporre, riadattarsi.

Se al contrario si metterà al centro dell’attenzione qualunque elemento del suo complesso vissuto e della propria personalità che il bambino voglia offrirci, attribuendogli un valore, quest’attenzione gli permetterà  di esprimere la propria dimensione autentica, perché si sentirà ascoltato e visto per quel che  è.
E ogni bambino desidera intensamente essere conosciuto.

Se le parole dei bambini si rivelano una porta aperta verso le risorse  della mente del bimbo e le loro fisiologiche potenzialità di sviluppo, diventa allora prioritario proporre un accompagnamento e un ascolto che mettano a fuoco nel groviglio dei sentimenti ciò che chiede attenzione e vi entrino in relazione, al fine di condurre i piccoli a costruire un solido e personale ponte tra  passato e presente.