....Altri suoni, altri colori degli sguardi feriti.

Ascoltando le storie di donne ferite, scopro nei loro sguardi suoni e colori dalle sfumature sempre differenti. Sguardi diversi si alternano nella stessa persona: tutti mi sorprendono e  mi toccano per la drammaticità delle relazioni di cui sono espressione.

Lo sguardo color rosso cupo ha il rumore assordante della rabbia senza sbocco. La donna racconta senza sosta, con un dolore rabbioso, tenace e apparentemente inestinguibile:

”Lui deve capire, gli parlerò all’infinito finchè non capirà le mie ragioni e faremo pace. Non posso restare in guerra con lui, anche se sono andata via di casa perchè litigavamo troppo. Se non facciamo pace non mi salvo, non posso continuare ad esistere. Piuttosto del conflitto, piuttosto di separarmi, preferisco cercare di farlo cambiare”.

E’ l’atteggiamento di chi  cerca di sanare il  proprio vuoto interiore modificando a forza l’altro. Sono donne che non si placano, riaccendono il conflitto, rinvangando di continuo il passato e rifiutando caparbiamente di andare oltre. Il loro sembra un modo disperato di tenere l’altro avvinghiato a sé, di non affrontare il futuro da sole.

Lo sguardo trasparente, asciutto, intessuto di attesa dolente. La donna si interroga  senza sosta, vive in un limbo emozionale dal quale non riesce ad uscire:

”Lui capirà, cambiera’? Non ci credo più, a lungo l’ho sperato, continuando a farmi mortificare. Poi, non so come, dopo tanti anni di dolore sono riuscita ad allontanarmi da quel luogo e sono rinata, almeno all’esterno: ma perchè non riesco più a sentire nulla? E perchè in fondo tendo ancora a  salvare un pezzetto di lui?” Le conseguenze emotive di un trauma sono dure a modificarsi,certo. Ma l’effetto di questo trauma sembra radicarsi senza scampo nell’identità della donna che ha subìto, immobilizzandola nel vuoto emotivo. Che apre la strada alla ricaduta.

Lo sguardo vuoto, color plastilina, dagli echi cupi e mortiferi. L’ho visto apparire sui volti di  ragazze molto giovani e fragili . Uno sguardo spento, privo di scintilla vitale.

Una ragazza lo dice esplicitamente:

“Va bene qualunque cosa lui mi faccia, anche se mi picchia o mi violenta, ma non posso stare senza di lui. Quella volta che mi ha costretta a farlo,che vergogna…Ma io cerco solo un ragazzo, lui o un altro in fondo è uguale. Non valgo niente, senza.”

Ho visto giovani  donne particolarmente fragili abbarbicarsi a qualunque costo alla relazione, senza immaginare di avere volontà e capacità di scelta. Immerse in un primitivo senso di colpa (io sono sempre più colpevole di lui), nemmeno si accorgono del lento autoannientamento che questo porta con sè.

E’ sufficiente a spiegare tutto questo, mi domando, la cultura in cui siamo immerse?

Certamente il clima culturale amplifica una difficoltà femminile a percepire la propria identità personale come un valore, a prescindere dall’altro.

Un altro ostacolo che accomuna queste donne è la convinzione che subire  sia comunque preferibile alla solitudine. E al fondo di tutto questo c’è sempre  il “se non mi vedi non esisto”.

Per le donne ferite da relazioni violente è un passo difficile quello di assumersi la responsabilità del  proprio dolore. Per arrivarci bisogna staccarsi da un aspetto cui si è molto affezionate: l’immagine di sé come curante. Non importa se io soffro, non posso smettere di prendermi cura di te.

Quanta disperazione c’è in queste parole? Quanta coazione a idealizzare l’altro e a sminuire sé stesse?

Quando dopo tante ricadute una donna riesce a tentare ancora, leggo nelle sue parole e nel suo volto la grande fatica di esserci. Di accettare la distanza dall’altro. Di riconoscere quando la sofferenza è troppa, rinunciando all’onnipotenza.

“Ora davvero basta, basta” dice una di loro con gli occhi umidi, lo sguardo per la prima volta fermo. “L’ho bloccato su tutte le piattaforme”. Questo atto mette una distanza, sia fuori che dentro: occorre coraggio per farlo e soprattutto per resistere alla tentazione di tornare indietro. (“ce la farò stavolta?”)

L’affetto, il sostegno, il prendersi per mano in momenti così sono fondamentali.

Per arrivare a scoprire che si esiste anche senza essere viste da un uomo che umilia, a  rendersi poi conto che che quell’uomo in realtà non ci vedeva, che ci siamo inventate tutto, si deve percorrere un cammino estremamente accidentato.

E allora per prendere dimestichezza con la propria solitudine occorre non sentirsi abissalmente sole, non viverla come morte. Lo sguardo di una donna che prova a dire ”basta” parla di determinazione e di richiesta di vicinanza, dà voce a smarrimento e alla ricerca di un punto fermo ancora ignoto…. 

La certezza di esistere a prescindere è una conquista possibile. Richiede la pazienza di imparare a prendere per mano la sé stessa fragile e a sorriderle ogni giorno.

Paola Terrile

3 Dicembre 2023