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Pensieri in Movimento

“Voci dal vuoto. La creatività femminile in analisi”

18/12/2018

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Dopo aver messo a fuoco le domande che erano state aperte dal lavoro analitico, introdurremo ora alcune riflessioni di carattere più teorico a partire da quel punto che l’esperienza clinica con le analizzanti ha posto in evidenza come momento centrale del processo terapeutico, e cioè l’esperienza del vuoto. 
Di che cosa è fatta l’esperienza del vuoto?

Partiremo da una constatazione molto semplice: coesistono in essa una dimensione di sofferenza e una di piacere. Cercare di dare voce al vuoto comporta, da un lato sofferenza, poiché equivale a scoprire che la propria identità è sempre un po’ altrove; ma dall’altro anche sollievo, grazie alla scoperta di molteplici possibilità di esperienza di sé, e grazie al raggiungimento di un’identità molto più fluida e in movimento rispetto a quella delle immagini culturali collettive con le quali ci si era identificate.

Si intrecciano qui due versanti della medesima esperienza, uno più ideologico e l’altro più clinico. Da una parte c’è la scarsa abitudine delle analizzanti a dire “io” e sentire “io” come un valore; da cui consegue un processo espressivo faticoso, in cui ci si sente sempre in bilico tra l’esigenza di avere uno spazio proprio e la difficoltà a vivere l’assenza di punti fermi che questo spazio inevitabilmente comporta. Difficili da sopportare sono l’indefinitezza e il disorientamento, contrapposti agli schemi rassicuranti delle immagini sociali collettive.

(“È vero che vivo soltanto di immagini altrui, osserva un’altra analizzante stringendo le spalle perplessa, ma io sono sempre andata avanti così…” Come a dire: possibile che si riesca a vivere altrimenti?).
D’altro canto emerge, dai racconti delle analizzati, un altro dato fondamentale: l’esperienza del vuoto non è unicamente un momento preliminare, bensì una parte costitutiva dell’esperienza di sé e quindi della propria identità. Tale esperienza può essere, in questo senso, considerata come una necessità del processo psichico, che da solo si costituisce in un alternarsi di pieno e vuoto, di parola e silenzio, sia nel processo preliminare che nel momento individuativo vero e proprio.

Paola Terrile, da”Voci dal vuoto.La creatività femminile in analisi, Bergamo 1997

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Pazienti postmoderni

18/12/2018

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Tratto da “Lo psicologo analista e gli orfani dell’Io”
Mentre ascoltiamo le parole piatte degli “orfani dell’Io”, stiamo costruendo uno spazio relazionale che non interpreti né decostruisca, ma tenga insieme la complessità dell’esistenza nell’era contemporanea, come messa in evidenza del comune essere individui immersi nel presente; rispettando anche la necessaria difesa nevrotica che tiene insieme la fragilità delle identità, così come il limite di comprensione del paziente rispetto alla funzione simbolica. Se la richiesta iniziale del paziente è di fatto quella di stare meglio, su che cosa ciò significhi, le strade mentali già si dividono.

Dato che nel presente ciò che ci si mostra è un falso Sé, ovvero l’unica modalità identitaria che tiene insieme il nostro paziente, mi sembra legittimo e possibile evitare di smontarlo e provare invece ad integrarlo. Per comprendere che cosa ciò concretamente significhi, occorre partire da un’osservazione empirica di ciò che avviene nel nostro studio. Se il paziente si accorge che l’analisi non ottiene effetti immediati, che contrariamente alle sue attese è un percorso lungo e faticoso, che occorre impegnarsi in prima persona perché l’analista non può migliorare le cose da solo, perché non interrompe le sedute e non va a cercare un “metodo” più veloce per stare meglio, il che sarebbe assai più in sintonia con il suo habitus mentale?

Come mai continua invece a frequentare il nostro studio, al quale era giunto con una fretta ansiosa di essere liberato dai sintomi dal tecnico di turno, ed in cui circola un’aria straniera e totalmente estranea al suo quotidiano essere nel mondo?
Le sedute di questi pazienti sono abitate anche per anni da anestesia dei sentimenti, assenza di ascolto, silenzio, frammentazione del soggetto, attesa. Se il silenzio, l’ascolto e l’attesa di qualcosa che non c’è ancora, nella vita del paziente fuori della stanza di analisi non esistono, proprio lo sperimentare questa esperienza perduta può essere ciò che trattiene il soggetto sofferente dal fuggire verso modalità di cura più facili ed immediate.

Tutto è fermo, mentre la signora S. mi racconta -del movimento convulso e per lei insensato che costituisce l’essenza delle sue giornate. Io percepisco vuoto ed assenza, lei sta di nuovo male e si abbarbica ancora una volta alla sua struttura nevrotica come alla sola identità possibile. Stiamo insieme in una stanza, ma non comunichiamo a parole, perché non abbiamo un linguaggio comune. A ben guardare, però, mentre S. mi parla ed io l’ascolto, non viene con ciò già soddisfatto un bisogno di relazione che, pur se inconsapevole, può fungere da traino per la rinascita e trasformazione dell’Io? L’esperienza dell’essere ascoltati ed accolti è un’incubatrice di significati (di modalità istintive e meno spersonalizzate di entrare in contatto con il mondo), che possono non emergere per molto tempo, mentre l’analista maieuta ne accompagna il formarsi ed il venire alla luce.

La stessa sofferenza appare in questa luce meno inglobante, perché il condividerne il peso apre uno spiraglio di differente approccio. Nell’ “ascoltare e stare” il legame – interiore, tra noi, col mondo – è già presente: nel corso del tempo lentissimo dell’analisi si cercano i pensieri per accorgercene e le parole per esprimerne forme, sfumature, movimenti.

Ciò che facciamo in seduta, tra immagini di calma piatta e invadenza del sintomo, è quindi il costruire un senso stando entrambi seduti nell’anima collettiva del nostro tempo tecnologico, anima che ci plasma e ci condiziona, ma appare del tutto incomprensibile. Lo è per il paziente che è identificato con la coscienza collettiva, ma anche per noi analisti, se insistiamo nel leggere il mondo con schemi già pronti e che risultano in parte inadeguati.

Se invece includiamo nel nostro ascolto terapeutico la complessità del mondo in cui viviamo, dell’anima oggettiva i cui aspetti inconsci ci influenzano profondamente, ciò facendo ci mettiamo in relazione con qualcosa di sconosciuto ed oggettivo il cui movimento possiamo arrivare a percepire, dandoci così la possibilità di non subirlo. Lo “stare con” è già la risposta alla domanda di guarigione, anche se il paziente in apparenza sta ancora male e non si relaziona con il proprio dolore. Avverte però che noi lo facciamo, e che questa è l’arte silenziosa ed umile che può dare significato al vivere. Il “dare senso” non può essere un processo esclusivamente mentale-cognitivo, ma emotivo-esperienziale.

Un atto quasi invisibile che sposta appena il punto di vista, ma tanto basta per modificare radicalmente la percezione di sé e del mondo. Nell’era della tecnologia e dell’individuo “liquido”, nella quale, tra materialità invadente ed onnicomprensiva da un lato ed illusione di libertà assoluta dall’altro, si è persa la dimensione relazionale empirica dello stare fermi ad aspettare di poter comprendere che cosa sta avvenendo in noi e cosa è meglio per noi, la ricerca del senso nella relazione è un’esperienza antica che non può essere spiegata (nessuno tra l’altro ci crederebbe), ma riscoperta.

A ben pensarci, la stanza d’analisi è oggi uno dei pochi luoghi in cui ci si può imbattere in questo tipo di esperienza umana fondamentale, nella quale senza limiti di tempo prefissati ci si può concedere il lusso (che neppure i genitori coi figli oggi si concedono, sempre pressati dal fare e dall’inseguire qualcosa) di stare fermi a fare nulla. Un “tempo vuoto” che riempie man mano l’esistere di un’espressione unica, e che si scopre consistere nel prendersi cura, nel costruire e scoprire un legame con l’altro dentro di sé e con l’altro al di fuori, e con il mondo. Nel momento in cui stiamo ad ascoltare un paziente sofferente ed intrappolato nella frammentazione e lui coglie l’autenticità di questo ascolto, il processo del “dare senso” come costruzione esperienziale a due è già in corso.

L’“assistenza nell’assenza” si srotola come un tappeto fino a diventare relazione vivente e vissuta, man mano che l’individuo si scopre a sé medesimo nell’esistere, ed esperisce la propria unicità come un valore. Il paziente intuisce infatti che questa per lui inedita esperienza ha un effetto benefico, anche se si tratta di un percepire istintuale confuso, che non possiede il linguaggio per esprimere; ma proprio questa percezione apre la strada verso un pensare che non si immaginava possibile, verso il pensiero-ponte che collega ciò che sembrava sostanzialmente diviso. Il bisogno di relazione può altresì essere letto come manifestazione dell’aspetto affettivo ed etico nel relazionarsi ad altri esseri umani.    

Riformulando la domanda sulla natura del legame tra noi e i nostri pazienti, un aspetto fondamentale di essa è la necessità (inconsapevole ma presente già nella domanda d’analisi) della relazione affettiva come dialogo con l’altro. Il puntare lo sguardo sul rapporto con la funzione del sentimento nella costruzione del senso della propria esistenza, conferisce al processo analitico un carattere etico; rimette cioè al centro l’individuo con i suoi limiti e le sue necessità, ma anche con la libertà e la responsabilità di dar loro una direzione, che è quella da lui percepita e scelta nel corso del dialogo con se stesso.

L’analisi così delineata, che potremmo infine descrivere come il quotidiano stare nell’assenza dal quale può prendere forma il processo della relazione, e quindi un Io più delineato e capace di sentirsi esistere ed esprimersi nel mondo, può essere ancora considerata come cura in senso psicologico e terapia? O questo non è che il lontano punto di arrivo, e mi viene da pensare in certi casi neanche il più importante, di un processo che è prima di tutto recupero e messa in salvo di un’ esperienza umana fondamentale?(…)

L’esperienza clinica quotidiana ci mostra un’evidente trasformazione del punto di vista: dal momento in cui il bisogno di relazione viene avvertito e riconosciuto dalla coscienza, al centro dell’investimento e dello sguardo del paziente non vediamo più la scomparsa del sintomo, bensì la premessa fondamentale di tale scomparsa. Vi cogliamo cioè il riconoscimento del bisogno di prendersi cura e di relazione autentica come nucleo fondante dell’esistere, e il costruire intorno ad esso la ricerca del proprio senso.

Paola Terrile “Lo psicologo analista e gli orfani del’Io”,in Pazienti postmoderni, Vivarium 2012.
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Raccontare la storia: la tessitura di passato e presente

18/12/2018

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Niente di quello che ci capita è troppo spaventoso da non poter essere guardato. Questo messaggio mutuato dalla psicologia del profondo può diventare per un bimbo adottato, e per i suoi genitori, un prezioso aiuto per crescere, evitando le secche del dimenticare il passato come espediente per non soffrire, o al contrario quelle del razionalizzare, ridurre, sminuire. Quando si tratta di bambini arrivati in famiglia da meno di un anno di vita il tema della storia, del come raccontarla, delle reazioni del bambino al racconto, occupa sin dal primo giorno molto spazio nella mente dei genitori. Diversi di loro pongono domande impazienti sul momento “giusto” per raccontarla.

Il rischio è che diventi per alcuni padri e per alcune madri un vero e proprio compito, un dovere da svolgere il prima possibile e una volta per tutte “per il bene del bambino”, senza però interrogarsi sul proprio sentire e sulle proprie eventuali diffcoltà al riguardo. Se la narrazione della storia diventa un’ideologia “politicamente corretta”, cioè assorbita dal genitore durante la formazione senza veramente farla propria, senza aspettare il momento giusto sia per il fglio sia per se stessi, può viceversa trasformarsi in qualcosa di destabilizzante per il genitore stesso. Non sarà in questo caso in grado di gestire le reazioni emotive del bimbo, che sono sempre spontanee e perciò imprevedibili, e avrà perciò bisogno di un supporto.

Per questo mi sembra importante porre all’attenzione e alla rifessione dei genitori il fatto che il racconto che porgeranno al bambino non appena sarà in grado di capire è un primo importante gradino del diventare famiglia adottiva: è, infatti, di aiuto a ogni membro della famiglia, compreso il più giovane, per prendere conoscenza della peculiarità del nucleo in cui è giunto a vivere. Importante anche dialogare sul fatto che il tema delle origini verrà ripreso dal bambino stesso, più volte nel corso delle tappe della sua crescita fino all’età adulta, con i propri tempi e con le proprie modalità. Già nell’infanzia arriva per ogni bimbo il momento delle domande diffcili, quelle ai quali il genitore non ha le informazioni per fornire una risposta.

E allora è importante trovare il modo per affrontare insieme al fglio anche questi aspetti della propria origine, senza caricarli di eccessivi timori preventivi né liquidarli in fretta. Aiutare i genitori a ridurre la propria tensione e a inserire per gradi il racconto della storia del bambino nella vita della famiglia, come un momento importante nella costruzione del rapporto, serve non solo a ridurre l’enfasi eccessiva e la “definitività” di cui il racconto viene caricato, ma anche a condurre il genitore stesso verso la ricerca della propria verità comunicativa, del proprio personale modo di raccontare una storia, dalla quali egli per primo è coinvolto, poiché si tratta della nascita della propria famiglia.

Questo percorso viene naturalmente favorito dal tenere conto anche dei propri sentimenti, nel rievocare il percorso dell’adozione. Raccontare la storia mette naturalmente in gioco anche chi la racconta; è un atto di relazione e può di conseguenza suscitare sentimenti tra loro contradditori, ricordi e ferite legate al passato, alle proprie aspettative mancate di genitorialità biologica ad esempio, può riportare ad ambivalenze non del tutto rimarginate. Tutto questo bagaglio di esperienza è vivo dentro la personalità di chi l’ha vissuto e, se pure già in parte assestato, può riemergere, nel momento ad alta densità emotiva del narrare la storia al proprio fglio adottivo. In questo atto in apparenza semplice si stratifcano, infatti, il desiderio di far bene al proprio fgliolo, l’imbarazzo per il riemergere di reazioni proprie che non si sa come collocare, il timore di non saper fronteggiare l’eventuale dolore o rifuto del bimbo di fronte alla verità che gli viene narrata. Di qui l’ansia e il corto circuito emotivo che a volte i genitori si trovano a fronteggiare.

Ad esempio, in una madre particolarmente ansiosa la mancata reazione del bimbo al primo racconto, l’assenza di domande, può scatenare insicurezze riguardo alla propria capacità di comunicare con lui, oppure rispetto allo sviluppo del bimbo stesso (“Non ha ancora fatto domande di approfondimento ed ha già cinque anni, è normale?”). Accompagnare i genitori verso la ricerca del “modo giusto” di raccontare, per sé e per il proprio bambino, signifca anche aiutarli a legittimarsi come protagonisti della relazione, cioè come persone, a comprendere che non devono essere asettici, ma possono avere e anche mostrare il proprio sentire, che anzi riceverlo è per il fglio un’autentica ricchezza e costituisce un approfondimento del suo legame con loro.

Secondo la mia esperienza, non solo per rispetto del bambino ma di se stessi, è importante trasmettere al bambino la verità in modo il più possibile diretto, semplice e completo, nel narrargli per la prima volta il proprio arrivo in famiglia e i suoi antefatti. Il bambino, anche se ha soltanto due o tre anni di età, è in grado di apprezzare la chiarezza del racconto, mentre la sua essenzialità lo aiuta a coglierne con immediatezza il nucleo, cioè che questi genitori lo hanno desiderato, accolto e voluto con sé. Sa anche apprezzare l’autenticità del genitore nel mostrare un’emozione o un sentimento, nel condividere una gioia o un sentimento di sofferenza, accogliendone l’eguale legittimità.
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Quali sentimenti prova un figlio adottivo appena entrato in famiglia?

18/12/2018

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Entrano come una ventata di aria frizzante di montagna. Veloci, sguardo mobile, impiegano meno di cinque minuti ad ambientarsi nella stanza dei giochi e a muovervisi con sicurezza. Anche se sono arrivati nel nostro Paese da un paio di mesi, comprendono già agevolmente la lingua e non di rado la parlano con una certa scioltezza. Alcuni si rivolgono direttamente alla psicologa analista, raccontando di sé; impulsivi e pieni di vita, si mettono in relazione con l’adulto sconosciuto non mostrando alcun timore, spesso con un approccio cameratesco e alla pari. Altri invece iniziano subito a giocare, in silenzio, disciplinati, interagendo a tratti con i genitori. Tutti portano con sé nel primo colloquio un’aria di personcine già fatte, che vivono con disinvoltura il loro essere immerse in un periodo di emozioni intensissime, di stimoli fortissimi e contrastanti. Sono stati appena catapultati in una dimensione completamente sconosciuta, ma che sembrano saper assorbire bene. 

Nel primo colloquio i comportamenti in seduta dei bambini più grandicelli (per comodità e per semplificare includo in questo gruppo i bimbi dai quattro anni) sono sovente caratterizzati da tratti comuni che lasciano emergere alcune emozioni: il desiderio di piacere ai genitori e di essere da loro accettati, lo stordimento euforico per tutte le novità positive che il nuovo mondo offre loro, dai giochi ai cibi, all’attenzione degli adulti; e il frequente rimando al loro passato in Istituto, nel racconto di episodi e aneddoti, spesso narrati con la chiara intenzione di far conoscere ai nuovi genitori il loro mondo di provenienza. Racconti tratti da colloqui iniziali con le famiglie ci aiuteranno a mettere a fuoco alcune emozioni e sentimenti significativi dei bambini nei primi mesi di vita in famiglia.

Amani ha cinque anni e mezzo quando giunge in Italia da un Paese dell’Africa, e all’epoca del primo incontro di postadozione, è giunto da tre mesi in famiglia. Durante il nostro primo incontro appare molto impaurito: entra ed esce dalla stanza, gioca muovendosi molto, corre nella stanza con una certa inquietudine, come se non sapesse bene come collocarsi. Mentre rispondo alle domande colme d’ansia della madre, lui mi lancia sguardi di sfuggita: sono occhi intelligenti, i suoi, ma è come se non si fidassero ancora a posarsi troppo in quelli dell’altro. Capisco che la sua paura va rispettata e non provo a forzare il contatto, rassicurando invece i genitori rispetto ai molti dubbi che li turbano. Amani a tratti interagisce col padre, cerca il gioco fisico, lo abbraccia.

Anche l’inizio del secondo colloquio, che si svolge due mesi dopo il primo, è difficoltoso: il padre conduce Amani per mano, ma sulla soglia della stanza  di postadozione lui oppone resistenza, si fa tirare per entrare. I genitori riferiscono dei suoi racconti rispetto alla vita nel suo Paese: esprime sofferenza rispetto agli amichetti lasciati là, porta ricordi della madre biologica, racconta sogni turbati e pieni di paura e di intenso pericolo, ma anche di desiderio di uscirne. Mentre Amani gioca, la madre mi racconta il sogno che lui le ha raccontato la notte precedente: Amani era al suo Paese, stava leggendo un libro di preghiere con un altro bambino, poi un signore molto vicino a Gesù gli ha messo dei soldini in mano.
Mentre la madre, supportata dal padre, sta spiegandomi che Amani è dotato di una forte spiritualità e che l’evocare il Gesù della sua educazione cristiana ortodossa gli serve per consolarsi, Amani afferra l’armonica a bocca del padre, mi si avvicina e dice:

“Suono il sogno di stanotte, è un bel suono”,

e inizia a soffiare nell’armonica, con gli occhi che finalmente sorridono. Già nel terzo incontro Amani entra subito in relazione diretta con me: gioca con la plastilina con forte concentrazione e mostrando buone capacità manuali ed espressive, nel contempo ascolta il dialogo tra i genitori e me e sembra esserne tranquillizzato. Ciò che emerge in questo incontro è che le ansie, in particolare quelle materne, in pochi mesi si sono attenuate lasciando il posto a un’espressione più fluida dei sentimenti. Parallelamente Amani appare più tranquillo e fiducioso, tanto da esternare in seduta alcune delle sue domande più pressanti:

“Perché io sono andato via e mia sorella no?”.
“Non voglio che la mia mamma dell’Africa muoia, morirei anch’io”.

Il clima relazionale di questa famiglia, sicuramente affettivo ma all’inizio frammentato dall’insicurezza eccessiva dei genitori, che trattenevano la propria spontanea capacità a mettersi in relazione con Amani inchiodandosi in un fastello di pensieri interpretanti, si trasforma in pochi mesi in una corrente limpida in cui ciascuno nuota come può, mostrandosi agli altri semplicemente com’è.

In particolare, Amani sembra molto più a suo agio in famiglia da quando ha compreso che i genitori accolgono i suoi racconti e il suo passato così come sono. L’iniziale paura e il sentimento di chiusura ed estraneità, che non appartenevano al temperamento del bambino, lasciano il posto a un’ironia affettuosa verso i genitori, che però sa premiare i loro sforzi:

“I miei genitori a volte mi trattano come un giocattolo, ma mi vogliono bene”.
“Sai una cosa? Se la mamma ti sgrida, capisci di più”.

Dopo meno di un anno dall’arrivo in famiglia, Amani sembra ben ambientato, inserito a scuola e nella famiglia anche allargata: con i genitori ha instaurato un rapporto aperto, accetta la loro autorità, li prende affettuosamente in giro. A loro volta, padre e madre sono più a loro agio nel ruolo di genitori e sembrano aver scoperto capacità educative spontanee delle quali sembravano inizialmente non consapevoli. In seduta Amani è ora molto loquace, mi pone domande, è un po’ grande un po’ piccino, sembra sentirsi molto meno straniero. Le sue parole sono spesso precise come lampi di luce, intrise di ironia leggera, e come tali accolte dal padre e dalla madre:

“La vita per me è difficile…”. ”Le cose difficili vengono sempre prima, vero?”.
“Vorrei un fratello, così mi sentirei meno solo, e la mamma prenderebbe in braccio lui perché ormai io sono grande e lei non lo capisce”.

I suoi lavori di plastilina o di lego, ricorrenti a ogni incontro, così belli e precisi nell’esprimere la sua volitività e forte immaginazione, mostrano un bimbo che ha infine trovato nella famiglia adottiva uno spazio per crescere.

Da “Figli che trasformano. La nascita della relazione nella famiglia adottiva” di Paola Terrile e Patrizia Conti. Edito da Franco Angeli, 2014.
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Cartoline di bordo: bambini dall’anima grande

3/12/2018

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Il lavoro di uno psicoanalista, che in apparenza si svolge tra le  quattro mura di una stanza, ad uno sguardo ravvicinato è in realtà molto dinamico. Ogni persona che incontriamo è un universo complesso,  cui ciascuna seduta ci accosta in modo sempre differente.
Tra i  mondi, tutti molto ricchi , che incontro ogni giorno,  merita uno sguardo particolare quello dei bambini adottati.
Arrivano in studio condotti da genitori  sensibili e attenti, che hanno appreso dalla loro esperienza di adozione che occuparsi dei disagi non appena si è giunti a percepirli, quando sono solo un’increspatura nel mare calmo delle relazioni affettive, può risparmiarci in futuro molta  sofferenza. Hanno appreso che dall’analista, soprattutto quando si è una famiglia speciale perché formata da non molto tempo, si va anche per stare meglio insieme, per essere aiutati a comprendere più a fondo quel figlio tanto  amato quanto (ancora) poco conosciuto.
I bambini, con i quali le sedute si trasformano in un gioco punteggiato di parole e disegni non di rado molto espressivi,  sembrano non vedere l’ora di poter  esprimere quello che gli pesa nel cuore. Mentre giocano o disegnano, raccontano la loro vita, anzi le loro vite. Sono bambini che hanno sei, sette o dieci anni, ma hanno già vissuto diverse vite: sono nati in un Paese lontano, dove hanno vissuto varie non semplici esperienze. Ad un certo punto, per motivi  a loro sconosciuti, sono stati portati in un altro Paese ed in un’altra famiglia: e da lì il mondo è ricominciato, del tutto diverso, e loro si sono riadattati.
Sono bimbi dall’anima grande, perché la varietà delle loro esperienze e il grande  sforzo che hanno dovuto compiere per riadattarsi li hanno resi saggi e già maturi, ma sono anche e comunque piccini.
E perché ci vuole un’anima veramente grande per contenere dolore e mancanza, ma anche gioia e affetti, compresi  quelli appartenenti al  passato e ormai lontani…
Il primo bisogno cui danno voce, spesso dimostrando una precisione stupefacente nel raccontare ciascun sentimento, è quello di essere conosciuti. Più ancora,  hanno bisogno che ogni istante  da loro vissuto, ogni ricordo e ogni sentimento, sia che appartenga a prima o a dopo il grande cambiamento, venga riconosciuto dai loro genitori come egualmente importante. Perché  l’identità di questi bimbi è fatta di presente e di  futuro, quello ancora da costruire insieme alla loro nuova famiglia, ma  è composta anche di quel che hanno vissuto nel tempo  vissuto nel Paese di origine, anche se si tratta di pochi anni o di pochi mesi.
Ascoltarli mentre si gioca con loro, senza avere fretta di comprendere né di consolare, può  quindi condurre a non poche scoperte. Le loro parole evocano con precisione l’emozione e chiedono semplicemente quel tipo di ascolto che dà contenimento e sollievo.
Ne darò ora alcuni brevi esempi. Ogni frase che trascriverò appartiene ad un bimbo diverso, le ho scelte per la particolare limpidezza espressiva. Sono squarci di luce sul mondo interiore di ognuno di loro, proposti con naturalezza.
“I miei genitori si preoccupano per niente…a volte me la prendo per quel che è successo quel giorno a scuola, ma subito loro esagerano, mentre io me la so cavare”.
“La mamma piange perché a scuola faccio arrabbiare la maestra,  ma perché lei  sta così poco con me e lavora sempre? Questo  mi rende triste”.
“Nel mio Paese c’erano tanti cattivi che sparavano sempre…per questo io qui ho tanta paura dei botti. Qui non ci sono tanti cattivi, vero?”.
“A volte ancora adesso appena mi sveglio la mattina non so se sono qui o laggiù, poi arriva la mamma a chiamarmi e mi bacia e la nostalgia passa. Ma so che un giorno al mio Paese ci ritornerò”.
“Io non so come sto, a volte sono triste, e allora mi spiace per i miei genitori e mi sforzo di essere allegra..”
“Non mi piacciono i miei occhi e i miei capelli, vorrei essere come tutti gli altri…davvero dici che sono belli anche loro?”
Frasi che mostrano capacità riflessiva ed emozioni complesse, frasi che confermano che per un bambino, in particolare per chi ha già accumulato esperienza dell’imprevedibilità del vivere,  tutto è  in movimento, nessun dolore è per sempre e c’è  sempre una nuova possibilità.
Forse hanno soprattutto bisogno che noi adulti, invece di preoccuparci soltanto, a volte troppo, di proteggerli dalle conseguenze di un  passato da noi immaginato per lo più negativo,  invece di vederli  unicamente come bimbi sofferenti e feriti, riconosciamo anche la  loro forza, la loro reattività e le loro risorse. E che glielo comunichiamo, sempre di nuovo.
Perché ci vuole tanta forza d’animo per affrontare  cambiamenti  di questa portata e questi bambini, già prima che li conoscessimo, hanno appreso a  farlo. Perché per loro è più semplice imparare a fidarsi di noi, se noi dimostriamo di accogliere i loro dubbi e gli smarrimenti,  e nello stesso momento di fidarci  sempre della loro energia vitale, in una parola se dimostriamo loro in ogni situazione di dar credito allo zainetto di capacità e di esperienza che si sono  portati con sé dal loro Paese.
Accompagnare la loro anima adulta e la loro anima piccina a fare amicizia  e ad armonizzarsi meglio diventa  nel tempo possibile, se ascoltiamo con mente e cuore liberi ciò che dicono, li accogliamo  e ci lasciamo via via  condurre. Attraverso  dolore e  paura,  smarrimento e rabbia, come attraverso una  gioiosa e consapevole fiducia in sé e nel mondo….
Dai bambini dall’anima grande c’è sempre  qualcosa di nuovo da imparare.

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Letture per nutrire l’anima

3/12/2018

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Si incontrano a volte romanzi che, per certi versi con maggior puntualità di un saggio di psicologia, ci introducono fin dalle prime pagine ad un mondo di esperienze umane vive e profonde, di sorprendente  ricchezza e di valore universale. Incontrato per caso poco prima delle vacanze di fine anno, questo libro che ho letto con grande e crescente piacere narra la storia di un ragazzo, nato agli inizi del 1900  in un piccolo villaggio  contadino del Nord della Germania,  che possiede un vero  talento per la musica.

La storia di questo giovane, che fin da piccolo si sente molto diverso dai coetanei  e come tale viene vissuto da loro, eppure conduce a lungo la stessa  vita, viene seguita nel corso del tempo e nelle curve del suo svolgersi; soprattutto nei suoi intrecci con la Storia dei drammatici eventi che caratterizzano la prima metà del secolo. Il romanzo, scritto da una giovane scrittrice tedesca in una lingua evocativa, spesso pulsante e densa di metafore e da poco tradotto in italiano, apre ad una serie di interrogativi vivi ed appassionanti, osservando i protagonisti anche in senso corale, da un’angolatura non usuale e sempre con grande partecipazione.

Il talento è qualcosa che di per sé conferisce maggiore senso ad un’esistenza, come può invece accadere che diventi fonte di ossessione e di frustrazione?

Come condiziona le relazioni di quella persona con gli altri e con l’ambiente in cui vive?
Che rapporto ha la forza creativa con altri aspetti dell’intelligenza e come contribuisce al  formarsi della personalità, nelle luci come nelle  proprie fragilità ?
Ancora, che cosa significa per la vita di un individuo inseguire caparbiamente  la realizzazione di un  unico sogno, trovando di fronte a sé troppi ostacoli;  e che cosa ne è  ad un certo punto dell’ esistenza dei desideri irrealizzati che continuano a circolare nella nostra mente?

Solo una breve suggestiva citazione, del momento in cui il giovane protagonista porta a casa il  nuovo violino ricevuto in dono:

“Ruven rientra alla fattoria. Quasi non parla più. Rimane per ore sdraiato a letto con il violino accanto. Ne accarezza la vernice, posa il fondo contro l’orecchio e ascolta dentro la cassa di legno. Tu sei così leggero, pensa mentre lo solleva, così innocente. Eppure mi domini completamente. Puoi uccidermi, lo sai. Ma non hai cuore. E ti prendi il mio, la mia vita. Saremo  entrambi  molto soli”.


“Da qualche parte c’è un briciolo di felicità” ,Svenja Leiber, Rovereto, Keller Editore, 2016
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Curare con Jung

13/11/2018

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"Martedì 13 novembre al Circolo dei Lettori di Torino,in Sala Gioco, ha avuto luogo una bella e partecipata serata sui temi e sull'attualità della cura psicoterapeutica junghiana. La riflessione su frasi di Jung,affiancata da letture di poesie contemporanee, ha dato l'avvio ad un intenso dialogo tra psicoterapeuti di differenti generazioni".

Di fronte agli smarrimenti dell’uomo contemporaneo, nei quali è evidente il sommarsi di malesseri individuali e inquietudini di matrice collettiva in un magma che risulta difficilmente decifrabile, uno psicoterapeuta di matrice analitica non può non interrogarsi sugli strumenti a propria disposizione. Siamo infatti chiamati a rispondere alle richieste di persone immerse in una sofferenza nella quale coesistono crisi di valori e profonda difficoltà a entrare in relazione con sè e con l’altro. Ci si domanda come la Psicoterapia di matrice junghiana, che vede tra le sue caratterizzazioni l’assenza di una tecnica predefinita, un modello di relazione terapeutica aperto e l’attenzione agli intrecci tra dimensione psichica individuale e collettiva, può contribuire a creare senso, in un’epoca di passaggi molteplici e drammatiche incertezze. L’incontro è pensato come un dialogo a più voci che prenderà le mosse da frasi di C.G. Jung che rimandano ai fondamenti del pensiero clinico psicologico analitico, abbinandole a stralci di poeti a noi contemporanei, scelti per le puntuali suggestioni rispetto agli snodi esistenziali dell’uomo del XXIesimo secolo. Prenderà corpo da qui un confronto-riflessione tra analisti di generazioni differenti, in un’ottica aperta, sul presente e sul futuro della cura.

Evento realizzato presso il CIRCOLO DEI LETTORI (VIA GIANBATTISTA BOGINO, 9 TORINO).
Relatori: Enrico Ferrari, Marco Garzonio e Paola Terrile in dialogo con i giovani analisti.
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Ma io una famiglia ce l'avevo!

3/12/2017

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In questo libro intraprenderemo un viaggio ”in punta di piedi”, animati dal rispetto e dalla delicata attenzione che meritano, intorno e dentro parole e racconti di bambini adottati in età differenti in Paesi lontani dall’Europa, che stanno attraversando l’età della loro fanciullezza.

Ci accosteremo ad essi considerandoli veri e propri ponti, importanti per prendere contatto con pensieri e sentimenti che accompagnano i bimbi in quel lungo “periodo di mezzo” rappresentato dai primi mesi ed anni nel nuovo mondo.
Ci guida l’ipotesi che guardare da vicino le esperienze pregresse del bambino, positive o negative, così come ascoltare le domande sulle origini e i sentimenti al riguardo, sia fondamentale per chiunque abbia a cuore il suo benessere. In una parola, imparando a prendere in considerazione e a prendersi cura di tutto quanto ha contribuito a costruire le competenze e l’identità del bambino, si può aiutarlo  a ricollocarle dentro di sè, a collegare quanto è separato e a situare sé stesso nel presente.

Osservando attentamente il modo in cui il bambino va costruendo connessioni, non necessariamente lineari, ma sempre portatrici di senso, tra sentimenti, tempi e luoghi a un primo sguardo assai distanti, ci si avvicina al nucleo della percezione di sé del bambino adottato e alla sua continuità identitaria: con sorprendenti scoperte su modi e tempi in cui la sua personalità va sviluppandosi.

I racconti spontanei, più frequenti nel primo periodo di vita in famiglia, sono in effetti un regalo, in quanto parlano per lo più della vita che il bimbo ha trascorso prima, aiutando il genitore a conoscere meglio i suoi bisogni. Nel caso il bambino sia entrato in famiglia nella primissima infanzia, a catturare l’attenzione dei genitori sono le sue domande e le ipotesi del figlio  sulle proprie origini.

Ciò che sappiamo dei vissuti e delle percezioni dei bambini adottati è peraltro mediato da alcuni presupposti che, per quanto realistici, possono non essere sufficienti a comprendere quello che i bimbi provano.
Uno di questi presupposti è che un bambino abbandonato dai genitori biologici sia per lo più triste e non si trovi nelle migliori condizioni per crescere, e che di conseguenza nella nuova famiglia starà senz’altro e fin da subito assai meglio che in istituto. Un altro è che l’amore della nuova famiglia risanerà gradualmente le ferite e aiuterà il piccolo a dimenticare o a mettere in un angolo il passato, iniziando in tutti i sensi una nuova vita.

Molto spesso il bambino non porta con sè soltanto brutti ricordi o vissuti negativi del suo Paese d’origine. Può aver conosciuto e ricevuto nei primi anni accudimento e affetto, dai genitori biologici o dai nonni o ancora dai fratelli maggiori, oppure dalle educatrici  che si sono prese cura di lui nell’Istituto in cui è cresciuto.

Anche se quando è partito dal Paese di nascita era troppo piccolo per poterne un ricordo, qualcuno nel luogo in cui ha visto la luce lo ha preso anche se per poco in braccio e lo ha condotto verso la vita. Tutto questo, al pari dei vissuti traumatici e dei cambiamenti improvvisi e radicali, non ultimo  il passaggio repentino di Paese o di Continente che lo ha condotto fino alla famiglia adottiva, (stiamo parlando di figli dell’Adozione Internazionale), fa parte dell’esperienza di ogni figlio adottivo e contribuisce a  formarne la personalità.

Costituisce un bagaglio fondamentale che il bambino inizierà presto a condividere con i nuovi genitori e con altri adulti di riferimento.

Difficilmente però noi adulti, genitori o psicologi, ci soffermiamo ad osservare o ad ascoltare  sentimenti e  riflessioni dei bambini nella loro interezza.

Animati da una comprensibile fretta di lenire le loro sofferenze, sovente non prestiamo abbastanza attenzione alle esperienze “normali” che ogni bimbo porta con sé.Eppure è a queste esperienze, alle reazioni che hanno attivato, formando la sua personalità e nutrendo competenze, che il bambino può fare appello per affrontare il compito della crescita in un universo differente da quello in cui è nato. La domanda che viene a questo punto da porsi è se puntando lo sguardo prevalentemente sugli elementi di sofferenza traumatica, non si rischi per paradosso di precludersi la possibilità di un’alleanza con la parte più matura della personalità del bambino; un’alleanza indispensabile a sua volta per aiutarlo nel difficile compito di tenere insieme, ricomporre, riadattarsi.

Se al contrario si metterà al centro dell’attenzione qualunque elemento del suo complesso vissuto e della propria personalità che il bambino voglia offrirci, attribuendogli un valore, quest’attenzione gli permetterà  di esprimere la propria dimensione autentica, perché si sentirà ascoltato e visto per quel che  è.
E ogni bambino desidera intensamente essere conosciuto.

Se le parole dei bambini si rivelano una porta aperta verso le risorse  della mente del bimbo e le loro fisiologiche potenzialità di sviluppo, diventa allora prioritario proporre un accompagnamento e un ascolto che mettano a fuoco nel groviglio dei sentimenti ciò che chiede attenzione e vi entrino in relazione, al fine di condurre i piccoli a costruire un solido e personale ponte tra  passato e presente.
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Ma io una famiglia ce l’avevo!”

1/10/2017

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Dal 5 ottobre 2017 sarà disponibile in libreria “Ma io una famiglia ce l’avevo!”

È un figlio adottato ad avere detto “Ma io una famiglia Paola Terrile ce l’avevo!”, ed è nell’esperienza dei bambini adottati che il libro vuole addentrarsi, rivolgendosi a tutti quei genitori, adottivi e non, che a un certo punto devono fare i conti con la diversità del figlio e, pur amandolo, faticano a capirlo. Nonostante l’esperienza degli adottati e delle relazioni familiari adottive sia troppo complessa e dinamica per essere rinchiusa in uno schema acquisito, l’autrice, attraverso le storie individuali raccolte nel suo lavoro di accompagnamento psicoterapeutico, riflette sui tratti comuni dell’essere adottato e ne evidenza aspetti poco conosciuti. Nel libro si esplorano la precoce tensione dei bambini a cercare l’identità includendo le proprie radici, la sofferenza del distacco dal passato e la spinta a tenerle insieme. Si ascoltano i loro racconti sinceri e le parole evocative e profonde con cui parlano di sé e della loro nuova realtà, ma anche di altri affetti e di altri mondi. Si racconta inoltre l’impegnativa ricerca, da parte dei bambini e dei loro genitori, della costruzione di una reciproca appartenenza, senza trascurare nulla di ciò che i piccoli portano con sé. Scopo del volume è quello di avvicinarsi il più possibile alla comprensione del mondo interiore dei bambini adottati, ricco di sentimenti che si rivelano di portata sorprendentemente generale, nella convinzione che tutto ciò possa costituire un importante apporto per i genitori, per gli operatori e per il lettore interessato all’universo adottivo.
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CIPA 1966-2016

31/1/2016

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CENTRO ITALIANO DI PSICOLOGIA ANALITICA ISTITUTO MILANO
organizza la Tavola Rotonda dal titolo
“
Articolazioni della psicoterapia di matrice junghiana nel servizio sanitario pubblico”

Mercoledi’ 27 gennaio 2016 – Ore 17-19

Presso Cooperativa Gruppo ARCO, Via Capriolo 18 (Metro Rivoli) – Torino

Tel: 011 3835245 email: info@gruppoarco.org


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