Quali sentimenti prova un figlio adottivo appena entrato in famiglia?

quali sentimenti prova un figlio adottivo

Entrano come una ventata di aria frizzante di montagna. Veloci, sguardo mobile, impiegano meno di cinque minuti ad ambientarsi nella stanza dei giochi e a muovervisi con sicurezza. Anche se sono arrivati nel nostro Paese da un paio di mesi, comprendono già agevolmente la lingua e non di rado la parlano con una certa scioltezza. Alcuni si rivolgono direttamente alla psicologa analista, raccontando di sé; impulsivi e pieni di vita, si mettono in relazione con l’adulto sconosciuto non mostrando alcun timore, spesso con un approccio cameratesco e alla pari. Altri invece iniziano subito a giocare, in silenzio, disciplinati, interagendo a tratti con i genitori. Tutti portano con sé nel primo colloquio un’aria di personcine già fatte, che vivono con disinvoltura il loro essere immerse in un periodo di emozioni intensissime, di stimoli fortissimi e contrastanti. Sono stati appena catapultati in una dimensione completamente sconosciuta, ma che sembrano saper assorbire bene. 

Nel primo colloquio i comportamenti in seduta dei bambini più grandicelli (per comodità e per semplificare includo in questo gruppo i bimbi dai quattro anni) sono sovente caratterizzati da tratti comuni che lasciano emergere alcune emozioni: il desiderio di piacere ai genitori e di essere da loro accettati, lo stordimento euforico per tutte le novità positive che il nuovo mondo offre loro, dai giochi ai cibi, all’attenzione degli adulti; e il frequente rimando al loro passato in Istituto, nel racconto di episodi e aneddoti, spesso narrati con la chiara intenzione di far conoscere ai nuovi genitori il loro mondo di provenienza. Racconti tratti da colloqui iniziali con le famiglie ci aiuteranno a mettere a fuoco alcune emozioni e sentimenti significativi dei bambini nei primi mesi di vita in famiglia.

Amani ha cinque anni e mezzo quando giunge in Italia da un Paese dell’Africa, e all’epoca del primo incontro di postadozione, è giunto da tre mesi in famiglia. Durante il nostro primo incontro appare molto impaurito: entra ed esce dalla stanza, gioca muovendosi molto, corre nella stanza con una certa inquietudine, come se non sapesse bene come collocarsi. Mentre rispondo alle domande colme d’ansia della madre, lui mi lancia sguardi di sfuggita: sono occhi intelligenti, i suoi, ma è come se non si fidassero ancora a posarsi troppo in quelli dell’altro. Capisco che la sua paura va rispettata e non provo a forzare il contatto, rassicurando invece i genitori rispetto ai molti dubbi che li turbano. Amani a tratti interagisce col padre, cerca il gioco fisico, lo abbraccia.

Anche l’inizio del secondo colloquio, che si svolge due mesi dopo il primo, è difficoltoso: il padre conduce Amani per mano, ma sulla soglia della stanza  di postadozione lui oppone resistenza, si fa tirare per entrare. I genitori riferiscono dei suoi racconti rispetto alla vita nel suo Paese: esprime sofferenza rispetto agli amichetti lasciati là, porta ricordi della madre biologica, racconta sogni turbati e pieni di paura e di intenso pericolo, ma anche di desiderio di uscirne. Mentre Amani gioca, la madre mi racconta il sogno che lui le ha raccontato la notte precedente: Amani era al suo Paese, stava leggendo un libro di preghiere con un altro bambino, poi un signore molto vicino a Gesù gli ha messo dei soldini in mano.
Mentre la madre, supportata dal padre, sta spiegandomi che Amani è dotato di una forte spiritualità e che l’evocare il Gesù della sua educazione cristiana ortodossa gli serve per consolarsi, Amani afferra l’armonica a bocca del padre, mi si avvicina e dice:

“Suono il sogno di stanotte, è un bel suono”,

e inizia a soffiare nell’armonica, con gli occhi che finalmente sorridono. Già nel terzo incontro Amani entra subito in relazione diretta con me: gioca con la plastilina con forte concentrazione e mostrando buone capacità manuali ed espressive, nel contempo ascolta il dialogo tra i genitori e me e sembra esserne tranquillizzato. Ciò che emerge in questo incontro è che le ansie, in particolare quelle materne, in pochi mesi si sono attenuate lasciando il posto a un’espressione più fluida dei sentimenti. Parallelamente Amani appare più tranquillo e fiducioso, tanto da esternare in seduta alcune delle sue domande più pressanti:

“Perché io sono andato via e mia sorella no?”.
“Non voglio che la mia mamma dell’Africa muoia, morirei anch’io”.

Il clima relazionale di questa famiglia, sicuramente affettivo ma all’inizio frammentato dall’insicurezza eccessiva dei genitori, che trattenevano la propria spontanea capacità a mettersi in relazione con Amani inchiodandosi in un fastello di pensieri interpretanti, si trasforma in pochi mesi in una corrente limpida in cui ciascuno nuota come può, mostrandosi agli altri semplicemente com’è.

In particolare, Amani sembra molto più a suo agio in famiglia da quando ha compreso che i genitori accolgono i suoi racconti e il suo passato così come sono. L’iniziale paura e il sentimento di chiusura ed estraneità, che non appartenevano al temperamento del bambino, lasciano il posto a un’ironia affettuosa verso i genitori, che però sa premiare i loro sforzi:

“I miei genitori a volte mi trattano come un giocattolo, ma mi vogliono bene”.
“Sai una cosa? Se la mamma ti sgrida, capisci di più”.

Dopo meno di un anno dall’arrivo in famiglia, Amani sembra ben ambientato, inserito a scuola e nella famiglia anche allargata: con i genitori ha instaurato un rapporto aperto, accetta la loro autorità, li prende affettuosamente in giro. A loro volta, padre e madre sono più a loro agio nel ruolo di genitori e sembrano aver scoperto capacità educative spontanee delle quali sembravano inizialmente non consapevoli. In seduta Amani è ora molto loquace, mi pone domande, è un po’ grande un po’ piccino, sembra sentirsi molto meno straniero. Le sue parole sono spesso precise come lampi di luce, intrise di ironia leggera, e come tali accolte dal padre e dalla madre:

“La vita per me è difficile…”. ”Le cose difficili vengono sempre prima, vero?”.
“Vorrei un fratello, così mi sentirei meno solo, e la mamma prenderebbe in braccio lui perché ormai io sono grande e lei non lo capisce”.

I suoi lavori di plastilina o di lego, ricorrenti a ogni incontro, così belli e precisi nell’esprimere la sua volitività e forte immaginazione, mostrano un bimbo che ha infine trovato nella famiglia adottiva uno spazio per crescere.

Da “Figli che trasformano. La nascita della relazione nella famiglia adottiva” di Paola Terrile e Patrizia Conti. Edito da Franco Angeli, 2014.